20180227 dal-cin«Al Santo col cuore di bambino»
Fonte "Il Gazzettino di Padova" di Martedì 27 Febbraio 2018, pagina 27

Da ottobre monsignor Fabio Dal Cin, trevigiano, è il delegato pontificio della Basilica: «Felice del ritorno in Veneto». Entrò nel santuario per la prima volta a sei anni: «Capii subito che qui c'era qualcosa di grande: mi colpì la devozione».

Cresciuto in un ambiente familiare e parrocchiale a pane e Sant'Antonio, come lui stesso ha più volte sottolineato, dall'ottobre scorso monsignor Fabio Dal Cin, trevigiano della diocesi di Vittorio Veneto, già officiale nella Congregazione vaticana per i vescovi, nonché segretario personale del prefetto cardinale Marc Ouellet, si è trovato delegato pontificio per la basilica padovana, oltre che per la Santa Casa di Loreto. Ma a parte un'educazione religiosa all'insegna della devozione antoniana, quando e come il presule ha avuto modo di conoscere e approfondire vita, pensiero, opere del Taumaturgo? È la prima domanda che gli rivolgiamo dopo quattro mesi dall'assunzione pratica del nuovo ruolo. «Mi piace ricordare intanto che della vita del Santo ci parlava in parrocchia la nostra catechista, una suora straordinaria, mai dimenticata. Poi, crescendo, è arrivata la lettura di alcune biografie, la conoscenza storico-scientifica derivante anche dalle ricognizioni padovane dei resti mortali del Taumaturgo».

E che cosa della vita di questo straordinario santo ha particolarmente colpito monsignor Dal Cin? - «Ma… quest'uomo che va da una parte, per così dire, poi si trova da un'altra: agostiniano, diventa francescano, vuole fare il missionario e si trova invece a fare dell'altro. Questi particolari mi hanno colpito, anche perché, mutatis mutandis, ovviamente, la stessa cosa è capitata anche a me…».

A quale proposito nella sua intensa attività sia in Diocesi sia in Vaticano? - «Dopo l'esperienza in Vaticano, avrei voluto tornare in diocesi, a Vittorio Veneto, e ne avevo parlato con il Vescovo. Avrei desiderato fare il parroco, invece mi è stato chiesto di andare… in un'altra direzione, appunto».

Tornando a frate Antonio, l'approfondimento della sua conoscenza, che cosa ha rivelato? - «L'opera di evangelizzazione da lui compiuta, entrando nei problemi reali delle persone. Non verità inventate a tavolino, ma realismo spirituale derivato dalla Sacra Scrittura e dai Sacramenti, i Sacramenti, cioè incontro con Dio, in un incontro reale come sono i Sacramenti celebrati dalla Chiesa».

Qual è stato il primo contatto con la Padova antoniana: basilica-santuario, comunità dei frati e Arciconfraternita del Santo? - «Beh, la prima volta che venni al Santo, dovevo avere cinque-sei anni. Con i miei genitori vidi questa grande chiesa e restai fortemente impressionato dai devoti che passavano all'arca e ponevano le mani sulla lastra tombale. Ero un bambino, ma capii già allora che lì c'era qualcosa di grande. Poi l'incontro con un frate, al quale mia madre si era rivolta per far benedire alcuni oggetti sacri acquistati. Non ricordo che cosa ci disse, ma la sua bontà, la gentilezza, le parole, l'accoglienza insomma, rimasero nella memoria non soltanto mia, ma di tutta la famiglia».

Che cosa ha rappresentato la nomina a delegato pontificio, che è stata resa nota nella primavera 2017? - «È stata una vera sorpresa, perché, dopo dieci anni di Vaticano, desideravo, come ho già detto, tornare in diocesi e al vescovo avevo dato la disponibilità. Certo, nel ruolo che ricoprivo, mi trovavo bene, però…».

La nomina è venuta da Papa Francesco. In Vaticano lei lo frequentava? - «No. Lo avevo conosciuto prima dell'elezione, ma con lui non avevo frequentazione. A volte rispondevo al telefono quando chiamava direttamente in congregazione cercando il prefetto, nulla di più. Lui, invece, mi conosceva… La nomina a delegato pontificio, comunque, mi ha fatto molto piacere, anche perché ho rimesso piede nel Veneto, la mia terra, che amo».

Non è soltanto un ruolo amministrativo, quello di delegato pontificio. C'è evidentemente qualcosa d'altro… - «È innanzitutto un ruolo pastorale, nel quale entra anche la dimensione amministrativa, che è funzionaria al servizio che deve svolgere un santuario: quello della evangelizzazione. Ruolo che posso svolgere con l'apporto di tante persone, in primis la comunità dei frati».

Conosciuta la nuova realtà, come pensa di muoversi (o come si sta già muovendo) sia all'interno della realtà antoniana, sia all'esterno, cioè in rapporto alla città di Padova e alle sue istituzioni? - «All'interno sono ancora un osservatore, per così dire, però intuisco, o vedo, che si dovrà sempre più creare (o lavorare per) una sinergia di tutte le risorse presenti nel santuario: comunità dei frati, Messaggero di sant'Antonio, Arciconfraternita, Veneranda Arca. Bisogna mettersi sempre più insieme per affrontare le attese dei devoti. Nei confronti della città, e del territorio, c'è già un cospicuo impegno in ordine alla carità: Pane dei Poveri di Sant'Antonio, Charitas Antoniana, accoglienza delle persone, promozione culturale. È una dimensione che non potrà certo venire meno nei confronti della città e della diocesi».
 
Giovanni Lugaresi
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